Responsabilità medica, morte del paziente: i danni risarcibili agli eredi

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  • DANNI “IURE HEREDITARIO”

Il danno biologico terminale.

Sotto un primo profilo, viene in rilievo il c. d. “danno biologico terminale”, da intendersi quale lesione del bene salute, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita della danneggiata dalle lesioni alla morte. Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, di recente ribadito dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. del 22 luglio 2015, n. 15350), tale voce di danno è risarcibile alla condizione che tra l’evento lesivo e il decesso sia decorso un lasso temporale apprezzabile, atteso che “nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (..) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo” (così le Sezioni Unite sopra citate). Pertanto, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte conseguenti all’illecito, “è configurabile un danno biologico risarcibile subito dal danneggiato, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica da lui patita per il periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis” (Cassazione civile, sez. III, 16/05/2003, n. 7632; conformi Cass. 25 febbraio 2000, n. 2134; Cass. 25 febbraio 1997, n. 1704; Cass. 20 gennaio 1999, n. 491; Cass. 10 settembre 1998, n. 8970; Corte Cost. n. 372-1994).

Ai fini della risarcibilità del danno in esame resta, invece, “irrilevante la circostanza che, durante il periodo di permanenza in vita, la vittima abbia mantenuto uno stato di lucidità, il quale costituisce, invece, il presupposto del diverso danno morale terminale” (cfr. Cass. sez. III, sent. n., 21060/2016).

Ciò chiarito, con riguardo alla quantificazione del medesimo danno biologico terminale, i giudici di legittimità hanno precisato che tale pregiudizio “va commisurato soltanto alla inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte” (Cass. 15491/2014).

Tale danno biologico terminale, quindi, va liquidato: “negli importi previsti dalle tabelle relative alla invalidità temporanea assoluta, salvo il riconoscimento di un maggior risarcimento (da apprezzarsi con criterio equitativo puro) nel caso in cui alla gravità delle lesioni si accompagni la sofferenza psichica (danno catastrofico) determinata dalla coscienza della gravità delle infermità e dalla consapevolezza della propria fine imminente” (cfr. Cass. n. 23183/2014).

Il danno morale c.d. “catastrofale”.

E proprio sotto tale profilo, nel caso di specie rileva anche la figura del danno morale c.d. “catastrofale”, quale stato di sofferenza spirituale patito dalla vittima nell’avvicinarsi della fine della vita: trattandosi di danno conseguenza, per la dimostrazione di tale pregiudizio la giurisprudenza di legittimità richiede la prova della “lucida e cosciente percezione dell’ineluttabilità della propria fine” (ex multis, Cass. sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537).

In altri termini, “in caso di morte della vittima (..), il risarcimento del c.d. danno catastrofale – ossia del danno conseguente alla sofferenza patita dalla persona che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita – può essere riconosciuto agli eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte. Pertanto, in assenza di prova della sussistenza di uno stato di coscienza della persona nel breve intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento, neppure sotto il profilo del danno biologico, a favore del soggetto che è morto, essendo inconcepibile l’acquisizione in capo a lui di un diritto che deriva dal fatto stesso della morte; e, d’altra parte, in considerazione della natura non sanzionatoria, ma solo riparatoria o consolatoria del risarcimento del danno civile, ai congiunti spetta in questo caso il solo risarcimento conseguente alla lesione della possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta” (Cass. n. 6754/2011; conformi Cassazione civile, sez. III, 20/04/2012, n. 6273; Cassazione civile sez. III 28 gennaio 2013 n. 1871).

In ultima analisi, alla stregua di tali principi di diritto, può affermarsi che il soggetto che, dopo aver patito determinate lesioni, perda la vita per loro causa, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale consistito nella sofferenza morale provata tra l’infortunio e la morte solo se, in tale periodo di tempo, sia rimasto lucido e cosciente.

  • DANNI “IURE PROPRIO”

Il danno da perdita del rapporto parentale.

Deve essere riconosciuto ai ricorrenti, “iure proprio”, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c. c., “da perdita del congiunto”, quale lesione dell’interesse “alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione” (Cassazione civile, sez. III, 16/09/2008, n. 23725).  Con riguardo al danno da perdita del rapporto parentale, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che “il riconoscimento dei diritti della famiglia (art. 29, primo comma, Cost.) va inteso non già, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati” (cfr. Cass. n. 8827/2003).

Secondo tale elaborazione giurisprudenziale, il danno in esame ha, quindi, il suo fulcro nel rapporto parentale, quale valore tutelato dall’ordinamento, che riconosce nelle relazioni umane e segnatamente nelle più qualificate, come appunto quelle familiari, un luogo privilegiato di scambio, condivisione, arricchimento e crescita, al quale attribuisce quindi un ruolo fondamentale per l’espressione e lo sviluppo della personalità individuale e sociale del cittadino (art. 2 Cost., anche in relazione all’art. 29 Cost.). In tale contesto, la tutela risarcitoria ha, quindi, la funzione di ristorare il danneggiato dell’ingiusta privazione di un rapporto fondamentale nella sua esistenza. Il danno è, infatti, rappresentato dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e, perciò, dalla irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che la scomparsa del congiunto irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti.

Sotto il profilo probatorio, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la sussistenza in concreto del danno in esame può essere dimostrata anche mediante l’ausilio della prova presuntiva, che consente, muovendo dal fatto noto – il legame di parentela – di risalire alla prova del fatto ignoto – le ripercussioni al contesto familiare derivanti dal decesso del congiunto – alla stregua dell’“id quod plerumque accidit”.

In altri termini, “il fatto illecito, costituito dalle gravissime lesioni patite dal congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nelle conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l’operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro” (si vedano, tra le altre, Cass. civ. Sez. III, n. 12146/2016, nonché Cass. civ., sez. III, n. 10527/2011).

Alla luce di tale interpretazione giurisprudenziale, “in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonchè alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare” (Cass. n. 9231/2013; conforme Cassazione civile sez. lav. 13 giugno 2017 n. 14655).

L’eventuale rapporto parentale stretto che legava la vittima e i suoi familiari e l’intensità del vincolo affettivo tra di essi esistente sono di per sé sufficienti a ritenere presunta la sussistenza del danno da perdita del congiunto.

Difatti, la suprema Corte ha chiarito che “Il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.” (Corte di Cassazione, n. 4253, sez. III del 16/03/2012).

Le Tabelle milanesi e il sistema a punti

In ossequio a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass. 33005/2021Cass10579/2021; Cass. 26300/2021), l’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano ha integrato le “vecchie” tabelle prevedendo nuovi criteri orientativi per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale. 

Dunque, per “personalizzare” in concreto il danno spettante agli eredi è stato inserito un sistema a punti in base a 5 parametri:

a) l’età della vittima primaria,

b) l’età della vittima secondaria,

c) la convivenza tra le due,

d) la sopravvivenza di altri congiunti,

e) la qualità e intensità della specifica relazione affettiva perduta.

Il punto e)  può avere un valore assai determinante poiché può attribuire fino a 30 punti.

La misura massima dovrà essere riconosciuta allorquando vi sia la prova di:
• frequentazioni/contatti (in presenza o telefonici o in internet);
• condivisione delle festività/ricorrenze;
• condivisione di vacanze;
• condivisione attività lavorativa/hobby/sport;
• attività di assistenza sanitaria/domestica;
• agonia/penosità/particolare durata della malattia della vittima primaria laddove determini una maggiore sofferenza nella vittima secondaria.

 

 

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